Giacomo Emiliani
Nato – primo di nove fratelli – il 27 giugno 1805 da distinta famiglia nell’entroterra Faleriense (riferirsi solo a Magliano potrebbe essere riduttivo, dati i beni posseduti anche a Falerone, Rapagnano e dintorni), nel ceto nobiliare dei maggiorenti piccoli proprietari terrieri che allora reggevano le sorti delle comunità civili in cui si estendevano i loro possedimenti, Giacomo si dedicò alla musica per intima vocazione e scelta ‘sentimentale’ di vita più che per la necessità d’una professione, quella di maestro di musica, che – di fatto – egli non esercitò mai, come dimostrano i tentativi, tutti mancanti ma parimenti perseguiti senza troppa convinzione, di occupare un simile ufficio: a Gubbio, a Montesanto (oggi Potenza Picena), a Montolmo (l’odierna Corridonia), a Civitanova, a Morrovalle (dove forse riuscì ad ottenere un qualche incarico, nel quale però non fu riconfermato), a Porto San Giorgio, sua abituale residenza estiva, dove gli fu preferito come organista e direttore di banda un certo Papi.
Emiliani fu un musicista con le carte in regola (apprese l’arte sin dalla fanciullezza, a Sant’Elpidio a Mare, perfezionandola poi in Ancona e a Roma sotto vari maestri), ma sine cathedra; in qualche modo un ‘libero professionista’ dei suoni più che un frustrato maestro di cappella mancato, che proiettò semmai nel figlio violinista Alessandro (ma anche stavolta con scarsi risultati pratici) le accarezzate istanze di realizzazione professionale. A cosa gli servì, allora, la musica? Io direi, soprattutto, a dare un senso alla propria vita: a sostenere, specie in età matura e senile, il peso di un’esistenza che, a volte grama per malanni fisici e insoddisfacente sul piano delle relazioni umane, dai sessant’anni lo gettò in un vero e proprio stato di sofferente prostrazione psichica. Una musica, perciò, squisitamente personale, ad uso e consumo di sé e di pochi intimi (oltre ai familiari, per lo più i frequentatori abituali dei salotti dell’aristocrazia fermana); non per questo una musica di scarsa qualità o trascurata, anzi – al contrario – molto meditata e, alcune volte, tecnicamente elaborata: non è da tutti, infatti, chiudere un quartetto d’archi con una fuga (nello scarno contesto dei musicisti marchigiani che nel secolo XIX si dedicarono a questo genere cameristico, da quanto mi risulta, un unicum).
Le ultime composizioni, poi, denotano un ulteriore ripiegamento del compositore su se stesso, e assumono caratteri spiccatamente autobiografici, come i brani per pianoforte dedicati alla scrittrice-pianista inglese Margaret Collier Galletti che Emiliani incontrò nell’estrema stagione della sua vita: dai titoli eloquenti di Lamento e The last farewell to my dearest friends (L’ultimo addio ai miei più cari amici); ma soprattutto quel Old age, Maturity and Youth (Vecchiaia, maturità e giovinezza) che, procedendo singolarmente a ritroso – e dal cupo al gaio – attraverso le tre età dell’uomo che ne decretano anche la forma tripartita, riassume emblematicamente tutta la di lui esistenza. Oppure – tra le composizioni sacre – piuttosto che il più ambizioso Requiem (sottoposto all’esame del contemporaneo ma infinitamente più famoso Veccchiotti che, dall’alto della propria auctoritas di “Rossini della chiesa”, non lesinò all’autore qualche suo ‘filosofico’ consiglio), il Miseremini mei, brano non – come si potrebbe pensare – particolarmente doloroso, ma sòrta di cullante Wiegenlied (nel suo continuo ondeggiare in 6/8), venato di malinconia e di un’ombra appena di contrappunto come consolante riflesso dell’eternità: quasi un abbandonarsi fiducioso, con le umane colpe e debolezze, tra le braccia di Dio.
Eppure, prima che le esperienze della vita lo fiaccassero così, Emiliani dovette essere un ingegno vivido, uno spirito arguto, un piacevole e ricercato compagno di conversazione nella tranquilla vita mondana di provincia, aperta però anche agli influssi esterofili nelle frequentazioni che egli ebbe con quella ‘colonia’ anglo-fermana (cui apparteneva Adelaide/Casson Welby, divenuta poi sua moglie) che, dai più lontani esponenti proto-ottocenteschi, giunge alla Joyce Lussu che anche noi abbiamo conosciuto… e questo, personalmente, mi è sembrato un risvolto molto interessante legato alla biografia del musicista. Ma Emiliani, per quanto in certa misura influenzato dalle abitudini e dalla cultura inglese (parlava correttamente la lingua, sebbene in un compassato Old style), rimase – io credo – veracemente marchigiano nelle sue passioni fondamentali per la vita semplice di campagna, la caccia, l’inclinazione al fare concreto: si adattava ad accordare il pianoforte, come a costruirsi oggetti con le proprie mani, da un prevedibile “velocipede” a una meno facilmente immaginabile “macchina” che doveva consentire di scrivere automaticamente la musica collegata a una tastiera-fonte della produzione sonora.
Dopo aver attraversato quasi tutto il suo secolo senza tuttavia essersi lasciato mai più di tanto toccare dai profondi rivolgimenti storici che pure lo caratterizzarono, il nostro musicista cessò di vivere il 17 marzo 1889, non senza prima aver decretato la distruzione della musica che egli aveva scritto. Per fortuna così non è successo, o almeno non del tutto; per cui, conservata in un archivio privato, è emersa parte di una non disprezzabile produzione compositiva che ci consegna squarci del suo musicale sentire: una giovanile sinfonia per orchestra, il Requiem e altri pezzi sacri, una sonata per violino e pianoforte, il quartetto d’archi e i brani pianistici già ricordati, e poco altro. Ma tanto basta per annoverare a pieno titolo anche Emiliani tra i compositori marchigiani del multiforme e complesso Ottocento.
Paolo Peretti
dalla Prefazione al volume di Claudio Giovalè,
“Giacomo Emiliani: musica e nobiltà”, Fermo, Livi, 2011